Eccomi arrivato nell’outback australiano dove regnano il color rosso della terra e il nulla per centinaia e centinaia di chilometri. Prima ancora di scendere dall’aereo che mi ha portato ad Alice Springs capisco che sono arrivato in un posto piccolo e remoto perché l’aeroporto possiede una sola lingua di cemento che fa pista e costringe gli aerei appena atterrati a fare un’inversione a U e marciare per alcuni minuti per raggiungere il gate e permettere ai passeggeri di scendere. Sulla strada che mi porta in paese il panorama che si presenta ai miei occhi è di gialli cespugli e modesti arbusti, nient’altro; nelle prossimità del centro abitato, come per sottolineare l’asprezza di questo territorio, ecco comparire un letto di fiume completamente prosciugato e con mia totale
sorpresa vengo a conoscenza che quello è solo la traccia del reale corso d’acqua che abbondante scorre sotto terra. Qui in pieno deserto, a differenza del resto dell’intero Paese, l’acqua non manca e non ci sono restrizioni nel suo utilizzo se non legate al buon senso; la natura, che roba! D’altronde se così non fosse il popolo aborigeno non avrebbe mai potuto vivere per millenni in un posto del genere che per noi gente del “nuovo millennio” non saremo in grado di sopravvivere nemmeno un giorno. L’indomani mi sveglio alle cinque e mezza perché alle sei ho l’appuntamento per iniziare il tour di tre giorni fra alcune delle famose icone dell’Australia, e non capisco perché il bus fa ritardo: alla fine scopro che esiste un mezzo fuso orario e così mi metto il cuore in pace sognando di essere ancora coccolato dal calduccio del letto anziché punzecchiato dal notturno freddo del deserto. Finalmente faccio conoscenza con la guida che ci accompagnerà nel viaggio e con mia grande sorpresa si presenta dicendomi che si chiama Domenico e che ha il nonno italiano e che l’unica cosa che sa dire in italiano è “mannaggia”. Si parte e ci aspettano 600 Km il primo giorno per raggiungere King Canyon, dove camminiamo in un rosso sentiero in mezzo ad altrettante rosse formazioni rocciose e nel frattempo Dom, la guida, ci da alcune lezioni sia di geologia riguardo alla formazione di questo luogo che di tradizioni aborigene legate all’uso di alcune piante che crescono in questi posti. Molto interessante quanto affascinante. Il giorno ormai sta per volgere al termine e prima che scenda la notte (non è consigliata la guida notturna per via dell’alta percentuale di animali che possono attraversare la strada) accendiamo un fuoco per cucinare la cena e soprattutto per difenderci dal freddo polare. Ancora una volta, lontano una vita dalle luci della civiltà mi ritrovo a fissare le stelle, i miliardi di puntini che ricoprono il cielo, le incontabili stelle cadenti e il silenzio che ci avvolge dormendo all’aperto. Mi sveglio che è ancora buio, tento di ingurgitare la colazione e via di nuovo a mangiare altre centinaia di kilometri per raggiungere il parco nazionale dove ancora una volta ci incamminiamo tra le teste del Kata Tjuta (che in aborigeno significa appunto “molte teste”), piccole formazioni collinari che per la loro semplicità fanno del panorama una visione unica e spettacolare; nel pomeriggio ci dirigiamo verso l’Uluru, in italiano “la roccia”, e apprendiamo alcune tradizioni aborigene legate a questo luogo sacro. È al tramonto che si apprezza la bellezza di questa pietra solitaria che è in grado di cambiare colore dal rosso all’arancione, dal violetto al buio. E caspita, sarà che sono condizionato dal posto e dalla situazione ma ai miei occhi quella formazione rocciosa è in grado di parlare, davvero. La sera ci ritroviamo di nuovo in cerchio attorno al fuoco e questa volta, per entrare ancora di più negli usi e costumi della terra in cui ci troviamo, ci cuciniamo una coda di canguro sotto una coperta di carboni ardenti: pollo, ecco cosa sembrava di gustare, ben diverso da altri tagli come potrebbe essere il petto o la coscia che hanno un altro sapore. Si torna a dormire sotto le stelle, nel sacco a pelo e nello swag, una sorta di sacco a pelo impermeabile con materassino incorporato, ma questa volta non è dura lottare con il gelo e quando la sveglia suona le cinque mi sento abbastanza riposato. Prima di ritornare sulla strada del ritorno siamo di nuovo ad osservare l’Uluru ma all’alba questa volta, e con i primi raggi di sole questo si incendia come un fiammifero, un intensità di colore che lo rende vivo. Prendiamo posto nel bus, ci aspettano ore e ore di strada ma prima di giungere in paese abbiamo ancora tempo di fare uno stop in un allevamento di cammelli da competizione (corrono a più di 60 Km/h!!) dove troviamo anche un husky (!) e un dingo giocare assieme, una famigliola di canguri, un paio di emu ed alcuni cavalli. Finalmente ritorniamo a quello che è un cenno di civiltà e con grande piacere mi butto sotto la doccia dopo tre giorni in cui ho potuto lavarmi solo i denti…
Ciao Domi!!!!!!
Che cos’è quella cosa che hai dietro??
Hai imparato l’Austaliese??
ciao Luvi!
cos’e’ quella cosa dietro di me? e’ il famoso panettone australiano!
un bacione
Sono giorni che mi faccio le stesse domande e in parte leggendo il tuo fantastico Blog trovo le risposte.. pensavo ma girando con un vantaggio che cercheremo di adibire a letto dove faremo la doccia? Dove faremo il bucato?
Una vera doccia la troverete se pernotterete in un ostello e per il bucato lo si fa quando ci si trova nei centri urbani (o negli ostelli!).